Dopo le tante interviste che mi sono state fatte negli ultimi due anni, mi sono sempre detto che avrei dovuto iniziare ad intervistare a mia volta per raccontare storie degne di nota. Stavo solo aspettando l’occasione giusta. E come sempre, l’occasione giusta è arrivata. Stefano (che di cognome fa Pampuro, già autore di Ogni corsa è un viaggio: Storia di una generazione che ha dominato la maratona) mi ha contattato qualche tempo fa per parlarmi del suo nuovo libro, “Oltre il confine” (disponibile – per ora in pre-ordine – qui), e devo dire che sin da subito gli argomenti da lui affrontati in questa nuova opera mi hanno affascinato. Perché non si tratta di un libro che parla solo di corsa, ma parla anche di un viaggio in una cultura lontana, in un periodo storico che a causa della pandemia che stiamo vivendo non ha molti precedenti.
Un viaggio tra Kenya ed Etiopia, raccontato in un libro dettagliato, ben scritto, appassionante.
Un racconto personale che assume spesso i tratti di un romanzo.
L’Africa è storicamente riconosciuta come patria di grandi maratoneti, un continente in cui la corsa è la cosa più naturale per l’uomo. Non a caso le ultime generazioni di maratoneti hanno avuto campioni provenienti da quelle zone (ultimo ma non ultimo, Eliud Kipchoge, che Stefano ha visto correre dal vivo durante questa sua esperienza).

Dopo aver letto il libro, del quale svelerò il giusto perché credo davvero che valga poi la pena leggerlo, ho chiesto a Stefano di rispondere ad alcune domande. Domande che mi ero appuntato qua e là sfogliando pagine che parlano dello sport che mi appassiona sotto la lente di ingrandimento di paesi la cui cultura affascina e la cui situazione geopolitica/socioeconomica preoccupa. L’Etiopia, nello specifico, è un paese che osservo da vicino da quando qualche anno fa avviai un programma di adozione a distanza. Da lì ho scoperto alcune tradizioni, sì, ma anche e soprattutto tutte le drammatiche difficoltà che la popolazione – soprattutto i più giovani – vivono sulla propria pelle.
In questo contesto difficile, la corsa diventa quindi filosofia di vita, ma ancor di più abilitatore sociale, e simbolo di speranza per tanti giovani runner. Ennesima prova, ce ne fosse bisogno, che lo sport è metafora di vita e strumento di inestimabile valore anche laddove mancano risorse base per sopravvivere.
Di seguito l’intervista, per approfondire alcuni aspetti che mi hanno particolarmente colpito:
Ciao Stefano, e innanzitutto grazie. Grazie per l’esperienza che hai deciso di raccontare, e grazie per la tua disponibilità nel rispondere a queste domande.
La prima, partiamo dall’inizio: come nasce la tua idea di partire per un’esperienza così intensa, in Africa, per poi raccontarla in un libro?
Ho sempre desiderato di poter vivere un’esperienza come questa a stretto contatto con questi campioni. Due anni fa mi sono deciso a chiedere alla mia azienda un periodo di aspettativa per partire e ho cominciato a pianificare il viaggio.
L’esperienza che racconti ha come base camp di allenamento per giovani atleti. Come sei stato accolto nei training camp che ti hanno ospitato? Cosa ti ha stupito maggiormente dell’organizzazione della vita nel campo?
Esattamente un anno prima di partire per l’Africa avevo incontrato a Brescia il dottor Rosa, che è il manager italiano che lanciò l’idea dei training camp in Africa più di vent’anni fa. Gli chiesi di poter alloggiare in quello di Kapsabet, vicino a Eldoret e lui acconsentì. Fin dal mio arrivo al training camp ho ricevuto un’accoglienza molto calorosa da parte dei ragazzi. Bene o male sapevo che non avrei trovato una struttura in stile occidentale, ma ero andato lì proprio per quello. Alla fine ci stupiremmo delle nostre capacità di adattamento a realtà così diverse dalla nostra. Quello che fa la differenza alla fine è la motivazione e la curiosità che ci animano quando intraprendiamo un’esperienza così diversa.
Tra le righe del tuo libro si intuisce che in Africa la possibilità di entrare in un training camp è anche un abilitatore sociale, che dà accesso a uno stile di vita diverso da quello al quale sono destinati tutti gli altri. È così? Come funziona la vita nel training camp?
Entrare in un training camp è un privilegio che non possono avere tutti. Si tratta di strutture pensate per accogliere atleti di alto livello e per metterli nelle migliori condizioni per allenarsi senza preoccuparsi di niente. Cibo e letto sono garantiti, e in Africa non è proprio roba da poco. Ovviamente tutti gli atleti ci provano, ad entrare, anche perché significa automaticamente trovare un manager che ti trova corse dove gareggiare, che è ciò a cui ambisce ciascun runner.
Durante questa esperienza tu stesso ti sei allenato con modalità nuove e attraversando paesaggi molto diversi da quelli a cui siamo abituati in Europa. Com’è andata?
Chiunque vada in Kenya ad allenarsi sa bene o male a cosa va incontro. Personalmente l’Africa mi ha completamente cambiato l’approccio alla corsa, arricchendolo di nuovi spunti e conoscenze. Posso dire che vivere a contatto con questi campioni e conoscere allenatori preparatissimi del calibro di Claudio Berardelli e Renato Canova è stato fantastico. I miei allenamenti erano più o meno gli stessi che svolgevo in Europa, ma la possibilità di allenarmi in quota, la mattina all’alba e a digiuno, oltre ovviamente alla possibilità di dedicarmi solo a correre, alla fine hanno fatto la differenza.
Che effetto ti ha fatto vedere Eliud Kipchoge correre dal vivo?
Devo dire che mi ha emozionato. Probabilmente è stato il più grande maratoneta della storia, per quello che ha vinto e per come lo ha fatto. Un atleta encomiabile e innovatore. Un vero lusso vederlo correre quella mattina alla pista di Eldoret.
Tra i vari capitoli del libro ci sono alcuni flashback che raccontano la storia di Martin. Raccontaci qualcosa di questo “personaggio”.
Martin Cheruyot è un atleta kalenjin di 32 anni con cui ho condiviso la camera del camp fin dal primo giorno. Ero alla ricerca di storie da raccontare, e la sua mi è sembrata interessantissima da subito. Un ragazzo con una vita durissima alle spalle, contornata da disgrazie e difficoltà di ogni tipo che ha superato con una grande forza d’animo. Nel libro ho raccontato tutto questo attraverso cinque flashback, due della sua infanzia, due della giovinezza e l’ultimo…è da scoprire.


L’avventura che racconti si divide tra Kenya ed Etiopia. Proprio in Etiopia, come emerge dai racconti, hai affrontato forse i momenti più duri. Com’è andata con l’ambientamento, laggiù?
In Etiopia ci sarei dovuto stare solo un mese, per ultimare la preparazione prima del mio ritorno in Europa e della maratona di Vienna. Invece le cose sono andate diversamente. Dopo pochi giorni dal mio arrivo il Covid ha stravolto il mondo e non mi è rimasto che decidere se tornare in Italia immediatamente o restare. Alla fine decisi di rimanere a Bekoji, non volevo buttare tutto all’aria e poi mi rimanevano degli atleti da incontrare, dei luoghi da visitare. Non è stato semplice sopravvivere all’Africa rurale durante il Covid. Ci sono stati momenti in cui venivo insultato per la strada o mi lanciavano pietre. Tornassi indietro però rifarei tutto uguale. Non mi pento di essere rimasto. Bekoji poi ha saputo anche regalarmi più di un sorriso.


Come è stato vissuto l’inizio della pandemia in Africa?
Purtroppo non bene. Nel villaggio dove ho abitato per tre mesi molte persone erano analfabete e assolutamente incapaci di comprendere un’emergenza come quella del Covid. Improvvisamente io sono diventato un capo espiatorio per via del colore della mia pelle e la gente per strada mi insultava credendo fossi una minaccia che portava il virus da lontano. Fortunatamente il governo attuale in Etiopia è molto democratico e coscenzioso, e a livello politico sono state prese tutte le misure del caso per prevenire e contenere la diffusione del Covid.
In conclusione, qual è la più grande ricchezza che ti porti dietro da questa esperienza? E quali sono i tuoi prossimi progetti?
Questa esperienza mi ha insegnato tantissime cose, dirne una sarebbe riduttivo. Ho imparato per esempio che il concetto che abbiamo in Occidente di “benessere” è molto relativo, e discutibile. Ho capito che dignità e motivazione possono essere la benzina di un essere umano anche quando degrado e povertà sembrano soffocare ogni speranza in una vita migliore. Sicuramente ho imparato più io dall’Africa che l’Africa da me. Mi piacerebbe un giorno, e spero tanto di riuscirci, di poter trasmettere tutto l’amore che provo per questo sport ai giovani, in particolare adolescenti. Credo che l’atletica leggera, come lo sport in generale, possano davvero migliorare la qualità della vita.
Grazie, di nuovo, Stefano. E grazie a voi, se avete letto l’intervista fino a qui. Non resta ora che leggere il libro per scoprire ogni sfaccettatura di questa incredibile avventura.
Buone corse!
