Con Asics alla Milano Relay Marathon

Che Domenica, amici. Che giornata, lo scorso 3 aprile, a Milano. A far da cornice a un saliscendi di emozioni, un saliscendi di temperature. Una giornata apparentemente uggiosa, sicuramente gelida, a tratti afosa. Incomprensibile come solo il meteo di Aprile sa essere. Ma insomma, è stato bello.

Sono stato invitato da Asicsne avevo parlato anche qui – per correre una delle staffette a scopo benefico organizzate per la Maratona di Milano. Ero molto incuriosito dall’esperienza, ho trascorso l’immediata vigilia studiando i dettagli organizzativi per viverla al meglio, e sono rimasto davvero soddisfatto. Ed emozionato. Ma partiamo dall’inizio.

L’idea di essere al fianco di un brand come Asics in progetti di questo tipo mi inorgoglisce già di per sé. Potrà sembrare una visione troppo romantica, ma immaginatevi una persona che 4 anni fa oggi era sull’orlo del baratro e oggi, con il suo progetto personale partito dal nulla, si trova a raccontare il mondo del running vivendolo da dentro.
Per evidenti motivi – per chi conosce la mia storia – la mission di Asics, Anima Sana in Corpore Sano, è qualcosa che sento davvero vicino. Così come sento vicina la mission di Progetto Itaca, onlus supportata da Asics in questa occasione. Mi sono trovato a far parte di un gruppo davvero eterogeneo di sportivi, all’insegna dell’inclusione. Mi inorgoglisce pensare di poter rappresentare, in contesti come questo, chi corre per stare bene lasciare da parte le paure, le ansie, il proprio malessere. Chi corre per perdere peso cercando di trovare una forma migliore. Chi corre per spegnere i pensieri. Chi corre, perché no, per superare i propri limiti, anche a livello amatoriale.

Passando alla pratica, a me è stata assegnata la terza frazione, la più breve, e questo mi ha dato la possibilità di poter “spingere” (senza esagerare, perché partivo a freddo) cercando di fare quello che per me è, oggi, un buon tempo, ma comunque godendomi il percorso. Percorso che, per altro, mi ha portato a circumnavigare lo stadio di San Siro, davanti al quale ho perso qualche secondo per scattarmi qualche selfie. Non ho resistito. Sono partito da piazzale Lotto (circa) per arrivare in zona Uruguay.

I miei compagni di staffetta erano Julia Jones, Alessia Sergon e Massi Milani. Le altre staffette – in totale 17 – erano composte da sportivi, ex sportivi di altre discipline e ora runner, appassionati come me, runner professionisti.

Per descrivere tutte le emozioni vissute senza – spero – annoiarvi troppo, ho scelto alcune parole chiave che possono aiutarmi.

E sono le seguenti:

Inclusione: un’esperienza che mi ha fatto vivere da vicino una Maratona di Milano e per l’ennesima volta mi ha fatto capire che in un evento del genere c’è posto per tutti, ad ogni livello; c’è il top runner che corre i 20 km orari; c’è l’atleta navigato che chiude sotto le 3 ore; c’è chi cammina, chi marcia, chi corre per un amico scomparso, chi corre per raccogliere fondi, chi corre per la pace, chi corre per farcela, chi corre da solo, chi corre in compagnia, chi corre lentamente, chi (purtroppo) si infortuna; c’è la vita; e c’è la possibilità per tutti, di esserci; questa è la corsa;

Partecipazione: ho visto una Milano viva, partecipe, coinvolta, felice; ci sarà stato chi ha maledetto l’evento, gli ingorghi, le code, il traffico modificato; ma la maggior parte delle persone osservava ammirata questo fiume di gente, urlando, applaudendo, sorridendo; facendo il tifo per l’altro; questo mi da un filo di speranza per il futuro;

Entusiasmo: dopo due anni a dir poco complicati, in questo clima di tensione drammatica per via di una guerra orrenda, ho visto un albore di entusiasmo; ho visto davvero la voglia di stare insieme e mettersi in gioco;

Rispetto: ho visto tanta, tantissima gente, agire con rispetto, ordine, disciplina, nei confronti degli altri e della città;

Organizzazione: ho visto filare tutto, incredibilmente, liscio, senza intoppi; tanta gente che si è messa al servizio degli altri per la sicurezza, la viabilità, il soccorso, per i ristori, per la pulizia; non oso immaginare quanto complesso possa essere organizzare un evento a dir poco invasivo per una città intera.

In ultimo, una bella sorpresa, che non avevo considerato: la medaglia. Era prevista per ogni staffettista, non me l’aspettavo, è stato emozionante tornare a riceverne e indossarne una.

Insomma, una giornata da ricordare, per la quale ringrazio ancora una volta Asics, Green Media Lab (Sara e Paola), i compagni di avventura, le persone incontrare durante il tragitto, e spero di tornare presto a vivere emozioni così vibranti. Perchè ne abbiamo tutti tanto bisogno.

Asics Running Academy – verso la staffetta alla Milano Marathon

Martedì 15 marzo ho partecipato con entusiasmo al primo appuntamento della Asics Academy, evento organizzato con l’obiettivo di presentare le staffette Asics alla Maratona di Milano, presentare le nuove Gel Nimbus 24 e far conoscere da vicino, ai runner che correranno, Progetto Itaca – la Onlus che Asics supporterà a scopro benefico proprio per le staffette.

Asics quest’anno è sponsor tecnico della Maratona di Milano e ha deciso quindi di essere presente su diversi fronti. Sono molto contento del mio coinvolgimento, chi mi segue sa che la maratona è una distanza che non ho mai corso – e in tutta onestà, al momento, è anni luce distante dalle mie capacità atletiche – e questa sarà un’occasione per vederla comunque da vicino, respirarne il fascino, godendo di un’atmosfera che immagino unica.

Farlo al fianco di Asics mi inorgoglisce, per 3 motivi principali:

1. Asics mi ha accompagnato, proprio con le mitiche Nimbus – che utilizzo tuttora – al traguardo della mia prima mezza maratona, quella di Brescia, raccontata nel libro che ho scritto;

2. la filosofia di Asics, Anima Sana in Corpore Sano, è davvero in linea con la mia storia; ho iniziato a correre per togliermi un peso dall’anima, riuscendo poi a perderne anche per il corpo;

3. Progetto Itaca, Onlus alla quale Asics donerà supporto, sostiene proprio le persone che soffrono di disturbi mentali, con programmi specifici che anche grazie allo sport permettono cura e superamento delle difficoltà.

Insomma, ci sono tutti gli ingredienti per sentirmi al posto giusto. Con me, in questa avventura, un gruppo eterogeneo di sportivi, capitanato da Stefano Baldini che – al fianco di Marco Cappelletti, Asics Brand Trainer – ci ha introdotto la nuova Nimbus partendo dalla sua esperienza personale. È stato molto interessante sentire il racconto dalla viva voce di un Runner con un’esperienza tale da poter davvero comprendere a pieno il valore di una scarpa e della sua tecnologia. Nimbus arriva al modello 24 aumentando il comfort e diminuendo il peso. La tecnologia Gel permette di rendere l’appoggio stabile garantendo il massimo dell’ammortizzazione, e questo è un aspetto importante soprattutto per runner di una certa mole.

In realtà però la Nimbus risponde bene per qualsiasi esigenza, dimostrandosi un modello piuttosto eclettico.

Anche esteticamente, personalmente, vedo una svolta verso una linea più moderna, che accontenta anche chi è attento a quell’aspetto.

Non ho ancora avuto modo di testarla quindi quando potrò farlo integrerò con sensazioni personali.

Prima della presentazione del nuovo modello, è stato presentato il Progetto Itaca. Era presente anche una persona che ha beneficiato dei servizi della Fondazione, raccontando la sua esperienza. È stato emozionante.

L’ultima parte della mattinata invece prevedeva una lezione di Mindful Running con Beatrice Mazza. Ho avuto l’occasione di allenarmi con altri runner ed è stato molto bello condividere un’esperienza così dopo due anni di allenamenti in solitaria.

Adesso prosegue la mia preparazione e fra poco più di due settimane sarà tempo di staffetta.

Vi racconterò l’esperienza qui e su Instagram quindi state sintonizzati. 💪🏻

“Oltre il confine”: un libro sulla corsa, che parla dell’Africa

Dopo le tante interviste che mi sono state fatte negli ultimi due anni, mi sono sempre detto che avrei dovuto iniziare ad intervistare a mia volta per raccontare storie degne di nota. Stavo solo aspettando l’occasione giusta. E come sempre, l’occasione giusta è arrivata. Stefano (che di cognome fa Pampuro, già autore di Ogni corsa è un viaggio: Storia di una generazione che ha dominato la maratona) mi ha contattato qualche tempo fa per parlarmi del suo nuovo libro, “Oltre il confine” (disponibile – per ora in pre-ordine – qui), e devo dire che sin da subito gli argomenti da lui affrontati in questa nuova opera mi hanno affascinato. Perché non si tratta di un libro che parla solo di corsa, ma parla anche di un viaggio in una cultura lontana, in un periodo storico che a causa della pandemia che stiamo vivendo non ha molti precedenti.
Un viaggio tra Kenya ed Etiopia, raccontato in un libro dettagliato, ben scritto, appassionante.
Un racconto personale che assume spesso i tratti di un romanzo.

L’Africa è storicamente riconosciuta come patria di grandi maratoneti, un continente in cui la corsa è la cosa più naturale per l’uomo. Non a caso le ultime generazioni di maratoneti hanno avuto campioni provenienti da quelle zone (ultimo ma non ultimo, Eliud Kipchoge, che Stefano ha visto correre dal vivo durante questa sua esperienza).

Stefano durante la scrittura

Dopo aver letto il libro, del quale svelerò il giusto perché credo davvero che valga poi la pena leggerlo, ho chiesto a Stefano di rispondere ad alcune domande. Domande che mi ero appuntato qua e là sfogliando pagine che parlano dello sport che mi appassiona sotto la lente di ingrandimento di paesi la cui cultura affascina e la cui situazione geopolitica/socioeconomica preoccupa. L’Etiopia, nello specifico, è un paese che osservo da vicino da quando qualche anno fa avviai un programma di adozione a distanza. Da lì ho scoperto alcune tradizioni, sì, ma anche e soprattutto tutte le drammatiche difficoltà che la popolazione – soprattutto i più giovani – vivono sulla propria pelle.

In questo contesto difficile, la corsa diventa quindi filosofia di vita, ma ancor di più abilitatore sociale, e simbolo di speranza per tanti giovani runner. Ennesima prova, ce ne fosse bisogno, che lo sport è metafora di vita e strumento di inestimabile valore anche laddove mancano risorse base per sopravvivere.

Di seguito l’intervista, per approfondire alcuni aspetti che mi hanno particolarmente colpito:

Ciao Stefano, e innanzitutto grazie. Grazie per l’esperienza che hai deciso di raccontare, e grazie per la tua disponibilità nel rispondere a queste domande.
La prima, partiamo dall’inizio: come nasce la tua idea di partire per un’esperienza così intensa, in Africa, per poi raccontarla in un libro?

Ho sempre desiderato di poter vivere un’esperienza come questa a stretto contatto con questi campioni. Due anni fa mi sono deciso a chiedere alla mia azienda un periodo di aspettativa per partire e ho cominciato a pianificare il viaggio.

L’esperienza che racconti ha come base camp di allenamento per giovani atleti. Come sei stato accolto nei training camp che ti hanno ospitato? Cosa ti ha stupito maggiormente dell’organizzazione della vita nel campo?

Esattamente un anno prima di partire per l’Africa avevo incontrato a Brescia il dottor Rosa, che è il manager italiano che lanciò l’idea dei training camp in Africa più di vent’anni fa. Gli chiesi di poter alloggiare in quello di Kapsabet, vicino a Eldoret e lui acconsentì. Fin dal mio arrivo al training camp ho ricevuto un’accoglienza molto calorosa da parte dei ragazzi. Bene o male sapevo che non avrei trovato una struttura in stile occidentale, ma ero andato lì proprio per quello. Alla fine ci stupiremmo delle nostre capacità di adattamento a realtà così diverse dalla nostra. Quello che fa la differenza alla fine è la motivazione e la curiosità che ci animano quando intraprendiamo un’esperienza così diversa.

Tra le righe del tuo libro si intuisce che in Africa la possibilità di entrare in un training camp è anche un abilitatore sociale, che dà accesso a uno stile di vita diverso da quello al quale sono destinati tutti gli altri. È così? Come funziona la vita nel training camp?

Entrare in un training camp è un privilegio che non possono avere tutti. Si tratta di strutture pensate per accogliere atleti di alto livello e per metterli nelle migliori condizioni per allenarsi senza preoccuparsi di niente. Cibo e letto sono garantiti, e in Africa non è proprio roba da poco. Ovviamente tutti gli atleti ci provano, ad entrare, anche perché significa automaticamente trovare un manager che ti trova corse dove gareggiare, che è ciò a cui ambisce ciascun runner.

Durante questa esperienza tu stesso ti sei allenato con modalità nuove e attraversando paesaggi molto diversi da quelli a cui siamo abituati in Europa. Com’è andata?

Chiunque vada in Kenya ad allenarsi sa bene o male a cosa va incontro. Personalmente l’Africa mi ha completamente cambiato l’approccio alla corsa, arricchendolo di nuovi spunti e conoscenze. Posso dire che vivere a contatto con questi campioni e conoscere allenatori preparatissimi del calibro di Claudio Berardelli e Renato Canova è stato fantastico. I miei allenamenti erano più o meno gli stessi che svolgevo in Europa, ma la possibilità di allenarmi in quota, la mattina all’alba e a digiuno, oltre ovviamente alla possibilità di dedicarmi solo a correre, alla fine hanno fatto la differenza.

Che effetto ti ha fatto vedere Eliud Kipchoge correre dal vivo?

Devo dire che mi ha emozionato. Probabilmente è stato il più grande maratoneta della storia, per quello che ha vinto e per come lo ha fatto. Un atleta encomiabile e innovatore. Un vero lusso vederlo correre quella mattina alla pista di Eldoret.

Tra i vari capitoli del libro ci sono alcuni flashback che raccontano la storia di Martin. Raccontaci qualcosa di questo “personaggio”.

Martin Cheruyot è un atleta kalenjin di 32 anni con cui ho condiviso la camera del camp fin dal primo giorno. Ero alla ricerca di storie da raccontare, e la sua mi è sembrata interessantissima da subito. Un ragazzo con una vita durissima alle spalle, contornata da disgrazie e difficoltà di ogni tipo che ha superato con una grande forza d’animo. Nel libro ho raccontato tutto questo attraverso cinque flashback, due della sua infanzia, due della giovinezza e l’ultimo…è da scoprire.

Il villaggio di Martin
La famiglia di Martin

L’avventura che racconti si divide tra Kenya ed Etiopia. Proprio in Etiopia, come emerge dai racconti, hai affrontato forse i momenti più duri. Com’è andata con l’ambientamento, laggiù?

In Etiopia ci sarei dovuto stare solo un mese, per ultimare la preparazione prima del mio ritorno in Europa e della maratona di Vienna. Invece le cose sono andate diversamente. Dopo pochi giorni dal mio arrivo il Covid ha stravolto il mondo e non mi è rimasto che decidere se tornare in Italia immediatamente o restare. Alla fine decisi di rimanere a Bekoji, non volevo buttare tutto all’aria e poi mi rimanevano degli atleti da incontrare, dei luoghi da visitare. Non è stato semplice sopravvivere all’Africa rurale durante il Covid. Ci sono stati momenti in cui venivo insultato per la strada o mi lanciavano pietre. Tornassi indietro però rifarei tutto uguale. Non mi pento di essere rimasto. Bekoji poi ha saputo anche regalarmi più di un sorriso.

Il villaggio di Bekoji
Bambino a cavallo, a Bekoji.

Come è stato vissuto l’inizio della pandemia in Africa?

Purtroppo non bene. Nel villaggio dove ho abitato per tre mesi molte persone erano analfabete e assolutamente incapaci di comprendere un’emergenza come quella del Covid. Improvvisamente io sono diventato un capo espiatorio per via del colore della mia pelle e la gente per strada mi insultava credendo fossi una minaccia che portava il virus da lontano. Fortunatamente il governo attuale in Etiopia è molto democratico e coscenzioso, e a livello politico sono state prese tutte le misure del caso per prevenire e contenere la diffusione del Covid.

In conclusione, qual è la più grande ricchezza che ti porti dietro da questa esperienza? E quali sono i tuoi prossimi progetti?

Questa esperienza mi ha insegnato tantissime cose, dirne una sarebbe riduttivo. Ho imparato per esempio che il concetto che abbiamo in Occidente di “benessere” è molto relativo, e discutibile. Ho capito che dignità e motivazione possono essere la benzina di un essere umano anche quando degrado e povertà sembrano soffocare ogni speranza in una vita migliore. Sicuramente ho imparato più io dall’Africa che l’Africa da me. Mi piacerebbe un giorno, e spero tanto di riuscirci, di poter trasmettere tutto l’amore che provo per questo sport ai giovani, in particolare adolescenti. Credo che l’atletica leggera, come lo sport in generale, possano davvero migliorare la qualità della vita.

Grazie, di nuovo, Stefano. E grazie a voi, se avete letto l’intervista fino a qui. Non resta ora che leggere il libro per scoprire ogni sfaccettatura di questa incredibile avventura.
Buone corse!

ASICS Ekiden 2020

Tempo di lockdown, ancora tempo di gare virtuali. Ero alla ricerca di nuovi stimoli nell’ultimo periodo, anche semplici, per tenere viva la passione in un momento storico complicato. E devo dire che la “chiamata” di Asics per l’evento #AsicsWorldEkiden2020 è cascata proprio a fagiolo. Non solo perché Asics è un marchio importante e che mi ha accompagnato in una parte fondamentale del mio percorso (le Nimbus, che oggi custodisco nei memorabilia del mio viaggio, mi hanno accompagnato al traguardo della mia prima mezza, a Brescia), ma anche perché l’evento ha proprio l’obiettivo di motivare e unire le persone in uno scenario mondiale senza precedenti. Un segno del destino, dunque.

Nuove e vecchie Nimbus a confronto :).

Una ricerca globale condotta dalla stessa Asics rivela che il 42% delle persone che si allenano regolarmente a livello globale hanno difficoltà a rimanere motivati, in quanto non hanno un obiettivo da perseguire al momento. Suona familiare? Ebbene sì, ci siamo dentro tutti. Per questo l’idea di questa staffetta virtuale nella quale coinvolgere altre 5 persone – per formare una squadra – mi ha convinto da subito. Ho deciso quindi di mettermi in gioco e invitare 5 amici di diversa provenienza con i quali, senza nessuna velleità su tempi e performance, coprire in 6 segmenti la distanza di una maratona.

Come ogni capitano che si rispetti sono stato il primo e ho aperto le danze oggi con i primi 5 km. Seguiranno i miei compagni, che dovranno correre entro il 22/11 per completare la distanza totale.

Nonostante qualche acciacco, ho dato il massimo e mi sono messo in gioco perché insomma, come detto, ne avevo bisogno.

Non resta a questo punto che aspettare di vedere come la squadra compirà questa missione per poi pensare alla prossima sfida.

Tra bilanci e prossimi obiettivi

Dopo aver corso due mezze maratone in due mesi (ormai ne parlo come se fosse normale, ma chi conosce il mio percorso sa che non è così visto che 12 mesi fa stavo iniziando a camminare e avevo ancora 33 kg da perdere) è nuovamente tempo di bilanci. E di nuovi obiettivi.

Sì perché, complice il meteo incerto dell’ultimo mese, la primavere sembra ancora non essere arrivata e in realtà presto sarà estate.

Qui lo dico e qui lo nego: ho in mente la maratona. Non come obiettivo, si tratta ancora di sogno, ma sto iniziando a pensare se possa valer la pena mettere in cantiere l’inizio della preparazione alla fine dell’estate. Non sono un runner da caldo, questo è certo. Sento molta più fatica anche solo con 5 gradi in più, inutile quindi pensare di poter allungare le distanze nei prossimi mesi se già sui 10 km rischio il collasso.

Quest’estate cercherò di lavorare sulla massa muscolare e sulla velocità. Lo sto già facendo, in realtà, sperimentando il fartlek. Devo dire che si tratta di un metodo affascinante poiché lascia molta libertà nella gestione dell’allenamento, e permette di rendere tutto più divertente. È fondamentale variare il ritmo se si vuole lavorare sui tempi.

Nel futuro prossimo invece, domenica 19 sarò alla Polimirun 2019 per provare a fare del mio meglio sui 10km. Se, come pare, il caldo non sarà ancora dei nostri proverò ad inseguire il PB cercando di abbattere il tempo della StraMilano. Vediamo.
Ho da poco risolto un piccolo fastidio al piede sinistro e devo capire se è scomparso del tutto o no.

Nel frattempo monitoro il calendario per fissare una bella mezza alla fine di settembre, sperando che il fresco in quel periodo mi permetta di migliorare sul tempo di Brescia.

runner extralarge

La prima mezza: alea iacta est

Ebbene eccoci qui. Dopo tanti proclami ho deciso davvero dove per la prima volta mi misurerò con la distanza di 21,0975 km.
Distanza che rispetto e alla quale mostrerò fino all’ultimo un rispetto reverenziale profondo. Per ora non ci sono arrivato. Ho corso solo 14 km in totale, in questo periodo di allenamento intenso.

Ho scelto di correre in una città non troppo distante da dove vivo, per fare in modo che la mia famiglia possa accompagnarmi senza viaggi impegnativi. Si resta in Lombardia, dunque.
Ho scelto di correre in una città dove è nato e cresciuto un artista al quale sono molto affezionato e che tanto mi ha regalato, in musica, nella sua carriera. La città di Omar Pedrini e dei Timoria.
Ho scelto di correre nella “Leonessa d’Italia”, come la definì il Carducci.

Correrò la mezza alla Brescia Art Marathon 2019. Succederà il 10 Marzo, se tutto va come deve andare.

Mi sto preparando duramente per farlo. Come guida mi sono liberamente ispirato alle indicazioni fornite da un articolo di RunLovers.
“Liberamente” poiché per seguirla al 100% avrei bisogno di due vite, ma siccome ne ho solo una (come tutti) ho cercato di tararmi sull’obiettivo di arrivare a correre 40 km a settimana, tenendo come base 3 allenamenti settimanali. Ho accantonato per ora il potenziamento muscolare mantenendo solo la corsa, con l’obiettivo di macinare chilometri.

In questo momento a due allenamenti da 10 aggiungo sempre il lungo del fine settimana, che per ora è arrivato a 14.
Cercherò di arrivare a correre i 18 prima del giorno della mezza, quando con ogni probabilità correrò quella distanza per la prima volta.

Ho iniziato a correre in luglio 2018, sono orgoglioso di ciò che sto facendo e consapevole di essermi dato un obiettivo comunque ambizioso.
Sono carico e curioso di mettermi alla prova.

@runnerextralarge