“Oltre il confine”: un libro sulla corsa, che parla dell’Africa

Dopo le tante interviste che mi sono state fatte negli ultimi due anni, mi sono sempre detto che avrei dovuto iniziare ad intervistare a mia volta per raccontare storie degne di nota. Stavo solo aspettando l’occasione giusta. E come sempre, l’occasione giusta è arrivata. Stefano (che di cognome fa Pampuro, già autore di Ogni corsa è un viaggio: Storia di una generazione che ha dominato la maratona) mi ha contattato qualche tempo fa per parlarmi del suo nuovo libro, “Oltre il confine” (disponibile – per ora in pre-ordine – qui), e devo dire che sin da subito gli argomenti da lui affrontati in questa nuova opera mi hanno affascinato. Perché non si tratta di un libro che parla solo di corsa, ma parla anche di un viaggio in una cultura lontana, in un periodo storico che a causa della pandemia che stiamo vivendo non ha molti precedenti.
Un viaggio tra Kenya ed Etiopia, raccontato in un libro dettagliato, ben scritto, appassionante.
Un racconto personale che assume spesso i tratti di un romanzo.

L’Africa è storicamente riconosciuta come patria di grandi maratoneti, un continente in cui la corsa è la cosa più naturale per l’uomo. Non a caso le ultime generazioni di maratoneti hanno avuto campioni provenienti da quelle zone (ultimo ma non ultimo, Eliud Kipchoge, che Stefano ha visto correre dal vivo durante questa sua esperienza).

Stefano durante la scrittura

Dopo aver letto il libro, del quale svelerò il giusto perché credo davvero che valga poi la pena leggerlo, ho chiesto a Stefano di rispondere ad alcune domande. Domande che mi ero appuntato qua e là sfogliando pagine che parlano dello sport che mi appassiona sotto la lente di ingrandimento di paesi la cui cultura affascina e la cui situazione geopolitica/socioeconomica preoccupa. L’Etiopia, nello specifico, è un paese che osservo da vicino da quando qualche anno fa avviai un programma di adozione a distanza. Da lì ho scoperto alcune tradizioni, sì, ma anche e soprattutto tutte le drammatiche difficoltà che la popolazione – soprattutto i più giovani – vivono sulla propria pelle.

In questo contesto difficile, la corsa diventa quindi filosofia di vita, ma ancor di più abilitatore sociale, e simbolo di speranza per tanti giovani runner. Ennesima prova, ce ne fosse bisogno, che lo sport è metafora di vita e strumento di inestimabile valore anche laddove mancano risorse base per sopravvivere.

Di seguito l’intervista, per approfondire alcuni aspetti che mi hanno particolarmente colpito:

Ciao Stefano, e innanzitutto grazie. Grazie per l’esperienza che hai deciso di raccontare, e grazie per la tua disponibilità nel rispondere a queste domande.
La prima, partiamo dall’inizio: come nasce la tua idea di partire per un’esperienza così intensa, in Africa, per poi raccontarla in un libro?

Ho sempre desiderato di poter vivere un’esperienza come questa a stretto contatto con questi campioni. Due anni fa mi sono deciso a chiedere alla mia azienda un periodo di aspettativa per partire e ho cominciato a pianificare il viaggio.

L’esperienza che racconti ha come base camp di allenamento per giovani atleti. Come sei stato accolto nei training camp che ti hanno ospitato? Cosa ti ha stupito maggiormente dell’organizzazione della vita nel campo?

Esattamente un anno prima di partire per l’Africa avevo incontrato a Brescia il dottor Rosa, che è il manager italiano che lanciò l’idea dei training camp in Africa più di vent’anni fa. Gli chiesi di poter alloggiare in quello di Kapsabet, vicino a Eldoret e lui acconsentì. Fin dal mio arrivo al training camp ho ricevuto un’accoglienza molto calorosa da parte dei ragazzi. Bene o male sapevo che non avrei trovato una struttura in stile occidentale, ma ero andato lì proprio per quello. Alla fine ci stupiremmo delle nostre capacità di adattamento a realtà così diverse dalla nostra. Quello che fa la differenza alla fine è la motivazione e la curiosità che ci animano quando intraprendiamo un’esperienza così diversa.

Tra le righe del tuo libro si intuisce che in Africa la possibilità di entrare in un training camp è anche un abilitatore sociale, che dà accesso a uno stile di vita diverso da quello al quale sono destinati tutti gli altri. È così? Come funziona la vita nel training camp?

Entrare in un training camp è un privilegio che non possono avere tutti. Si tratta di strutture pensate per accogliere atleti di alto livello e per metterli nelle migliori condizioni per allenarsi senza preoccuparsi di niente. Cibo e letto sono garantiti, e in Africa non è proprio roba da poco. Ovviamente tutti gli atleti ci provano, ad entrare, anche perché significa automaticamente trovare un manager che ti trova corse dove gareggiare, che è ciò a cui ambisce ciascun runner.

Durante questa esperienza tu stesso ti sei allenato con modalità nuove e attraversando paesaggi molto diversi da quelli a cui siamo abituati in Europa. Com’è andata?

Chiunque vada in Kenya ad allenarsi sa bene o male a cosa va incontro. Personalmente l’Africa mi ha completamente cambiato l’approccio alla corsa, arricchendolo di nuovi spunti e conoscenze. Posso dire che vivere a contatto con questi campioni e conoscere allenatori preparatissimi del calibro di Claudio Berardelli e Renato Canova è stato fantastico. I miei allenamenti erano più o meno gli stessi che svolgevo in Europa, ma la possibilità di allenarmi in quota, la mattina all’alba e a digiuno, oltre ovviamente alla possibilità di dedicarmi solo a correre, alla fine hanno fatto la differenza.

Che effetto ti ha fatto vedere Eliud Kipchoge correre dal vivo?

Devo dire che mi ha emozionato. Probabilmente è stato il più grande maratoneta della storia, per quello che ha vinto e per come lo ha fatto. Un atleta encomiabile e innovatore. Un vero lusso vederlo correre quella mattina alla pista di Eldoret.

Tra i vari capitoli del libro ci sono alcuni flashback che raccontano la storia di Martin. Raccontaci qualcosa di questo “personaggio”.

Martin Cheruyot è un atleta kalenjin di 32 anni con cui ho condiviso la camera del camp fin dal primo giorno. Ero alla ricerca di storie da raccontare, e la sua mi è sembrata interessantissima da subito. Un ragazzo con una vita durissima alle spalle, contornata da disgrazie e difficoltà di ogni tipo che ha superato con una grande forza d’animo. Nel libro ho raccontato tutto questo attraverso cinque flashback, due della sua infanzia, due della giovinezza e l’ultimo…è da scoprire.

Il villaggio di Martin
La famiglia di Martin

L’avventura che racconti si divide tra Kenya ed Etiopia. Proprio in Etiopia, come emerge dai racconti, hai affrontato forse i momenti più duri. Com’è andata con l’ambientamento, laggiù?

In Etiopia ci sarei dovuto stare solo un mese, per ultimare la preparazione prima del mio ritorno in Europa e della maratona di Vienna. Invece le cose sono andate diversamente. Dopo pochi giorni dal mio arrivo il Covid ha stravolto il mondo e non mi è rimasto che decidere se tornare in Italia immediatamente o restare. Alla fine decisi di rimanere a Bekoji, non volevo buttare tutto all’aria e poi mi rimanevano degli atleti da incontrare, dei luoghi da visitare. Non è stato semplice sopravvivere all’Africa rurale durante il Covid. Ci sono stati momenti in cui venivo insultato per la strada o mi lanciavano pietre. Tornassi indietro però rifarei tutto uguale. Non mi pento di essere rimasto. Bekoji poi ha saputo anche regalarmi più di un sorriso.

Il villaggio di Bekoji
Bambino a cavallo, a Bekoji.

Come è stato vissuto l’inizio della pandemia in Africa?

Purtroppo non bene. Nel villaggio dove ho abitato per tre mesi molte persone erano analfabete e assolutamente incapaci di comprendere un’emergenza come quella del Covid. Improvvisamente io sono diventato un capo espiatorio per via del colore della mia pelle e la gente per strada mi insultava credendo fossi una minaccia che portava il virus da lontano. Fortunatamente il governo attuale in Etiopia è molto democratico e coscenzioso, e a livello politico sono state prese tutte le misure del caso per prevenire e contenere la diffusione del Covid.

In conclusione, qual è la più grande ricchezza che ti porti dietro da questa esperienza? E quali sono i tuoi prossimi progetti?

Questa esperienza mi ha insegnato tantissime cose, dirne una sarebbe riduttivo. Ho imparato per esempio che il concetto che abbiamo in Occidente di “benessere” è molto relativo, e discutibile. Ho capito che dignità e motivazione possono essere la benzina di un essere umano anche quando degrado e povertà sembrano soffocare ogni speranza in una vita migliore. Sicuramente ho imparato più io dall’Africa che l’Africa da me. Mi piacerebbe un giorno, e spero tanto di riuscirci, di poter trasmettere tutto l’amore che provo per questo sport ai giovani, in particolare adolescenti. Credo che l’atletica leggera, come lo sport in generale, possano davvero migliorare la qualità della vita.

Grazie, di nuovo, Stefano. E grazie a voi, se avete letto l’intervista fino a qui. Non resta ora che leggere il libro per scoprire ogni sfaccettatura di questa incredibile avventura.
Buone corse!

Corri che ti passa: un anno in libreria

27 febbraio 2020 – 27 febbraio 2021.

Un anno fa coronavo un sogno. Mi è sempre piaciuto scrivere, non avrei mai pensato che farlo mi avrebbe aiutato a scacciare i miei demoni. Vedere il proprio nome sugli scaffali di una libreria non ha prezzo. Ma soprattutto non hanno prezzo i messaggi di persone che hanno letto la tua storia traendone speranza, forza, ispirazione. Quando, chiuso nella mia stanza, scrivevo i capitoli del libro, pensavo a quello. Alla possibilità di aiutare qualcuno.

La corsa è stata per me una rivelazione, è il minimo che posso fare è farla conoscere a più persone possibile.

Per celebrare questo momento, così profondamente simbolico per me, ho messo in fila i pensieri in un video. Spero vi piaccia.

Corri che ti passa: un anno in libreria.

Una storia

Tante storia

La mia

Quelle di tanti altri

E che cosa ho imparato?

Ho imparato che fare fatica non è poi così male

Che un’ora in mezzo ai campi di granoturco
può rimetterti al mondo

Ho imparato che i limiti sono mentali, non fisici

Che fatto è meglio che perfetto

Che è proprio vero che chi va piano può comunque andare lontano

Ho imparato che puoi correre anche quando fa così freddo che ti si congelano i pensieri

Che quando corri fai un viaggio dentro te stesso

Che a volte ti perdi, a volte ti ritrovi

Che la bellezza è ovunque, basta saperla ammirare

Ho imparato che se non corro mi manca

Che non so come facevo, prima

Ho imparato che, nonostante tutto

se corri, ti passa

L’autunno ci aspetta

È volata via, senza neanche darci il tempo di salutarla, di prepararci psicologicamente al buio presto, ai primi freddi, alle prime piogge. Ci è sfuggita dalle mani quest’estate un po’ strana, che ci siamo goduti un po’ di più in virtù di un primavera trascorsa chiusi in casa, in quarantena forzata.

Me la sono goduta, e ho corso molto più di più rispetto a quella passata. È stata la mia terza estate da “runner”. E adesso? E adesso diciamolo, arriva una stagione che per chi corre rappresenta quasi il massimo. Le temperature si abbassano, le distanze si allungano, le gambe si sciolgono. Un sogno, non fosse questa situazione contingente che ci tiene tuttora sospesi. Di gare non ce ne sono – e alle poche che ancora resistono personalmente non riuscirei a partecipare ora come ora. E allora ecco che anche in questa stagione riscopriremo il valore di correre per noi stessi, per i nostri obiettivi, in quell’esercizio di stile fine a se stesso che è la corsa.

Io proverò a lavorare su velocità e distanza, aspettando di poter poi fare, un giorno, una bella gara. Inseguo la mia quarta mezza maratona, dopo le 3 dello scorso anno.

E quando riuscirò a correrla significherà anche e soprattutto che altri problemi, ben più importanti, saranno rientrati.

Un ultima riflessione sul mio libro, che oggi era ancora incredibilmente in cima ai bestseller Amazon di categoria: che dire, una soddisfazione così non me la sarei mai aspettata, e ringrazio di cuore tutti coloro che hanno contribuito a rendere la mia storia unica tra tante.

Qualcosa in cui credere

Prendo in prestito una frase di una canzone come inizio di questa mia riflessione.

E se non hai niente in cui credere,
non avrai niente che puoi perdere.
Sì, tranne te.

Ecco. Riflettevo in questi giorni, nelle mie peregrinazioni mentali, sull’importanza di credere in qualcosa. C’è chi ha una fede religiosa. Io personalmente non rientro in questa categoria e talvolta provo invidia. Ma la verità è che la vita offre a tutti la possibilità di credere in qualcosa seguendo o la propria spiritualità o la propria indole.

Ecco che allora forse anche io credo in qualcosa: da due anni credo nella corsa. Credo in uno stile di vita diverso. Credo nello sviluppo della propria capacità di superare il limite. Credo nella resilienza, un termine abusato, spesso ridicolizzato dalle mode, ma che ha in se il valore del saper superare le difficoltà.

Credo nei valori dello sport. Credo nel tempo dedicato a se stessi. Credo nel coltivare una passione.

Credo nella natura. Credo nei fontanili, che irrigano la mia terra, quella dalla quale provengo: la pianura padana fatta di campi di grano, risaie, granoturco.

Credo nelle radici salde da cui dipendiamo e nelle ali che ognuno di noi ha per spiccare il volo.

Credo anche nella paura, perché no. Nella paura del domani, nella paura di non farcela. Probabilmente non sarà così per tutti ma è proprio nei timori, spesso, che mi sento Vivo.

Insomma, credo in quel qualcosa che ti spinge ad andare avanti anche quando credi di non potercela più fare.

E credo che credere sia importante. O almeno credo.

Nuovi progetti, nuovi obiettivi

Chi mi segue dall’inizio di questa avventura “di corsa” sa cosa significhi per me il progetto Runner Extralarge, a partire da “Corri che ti passa“. Un progetto nato dalle ceneri di quello che sono stato per svariati anni: una persona pigra, sedentaria, pronta a preoccuparsi per qualsiasi cosa senza far nulla per migliorarmi.

Ebbene, sono davvero tante le soddisfazioni che mi sono tolto finora. E non parlo solo certo di personal best, di chilometri, o di medaglie. Le performance non sono il mio forte. Non parlo neanche dei primati in classifica del libro, diventato best seller su Amazon. Parlo del fatto che tutti, e dico tutti, i messaggi che volevo trasmettere sono arrivati a destinazione. Non era scontato. Quando ho deciso di raccontare la mia storia, avevo solo un timore: essere frainteso. Temevo che da una parte potessi cadere nel vittimismo senza riuscire a passare il messaggio positivo della mia esperienza, che in realtà era l’unico che mi interessava. E temevo che dall’altra parte le persone avrebbero potuto pensare che volessi barattare le mie emozioni, le mie fragilità, per un pò (davvero poca, nel mio caso) di popolarità. Il rischio c’era, in entrambe le direzioni.
La verità però è che invece le buone intenzioni sono state riconosciute e di questo devo essere grato a tutti coloro che si sono messi in ascolto senza pregiudizio.

E non mi riferisco solo a chi si è immediatamente riconosciuto nella storia, traendone motivazione e immedesimandosi nella mia esperienza. Mi riferisco anche a chi, già più esperto, ha espresso apprezzamento per quanto ho fatto, riconoscendomi “compagno” in questa passione che ci accomuna: la corsa.

Immaginatevi quindi l’emozione quando mi è stata prospettata l’opportunità di collaborare con uno sponsor che ha riconosciuto in me e nella mia storia dei valori sportivi e umani – che vanno oltre il mero risultato sportivo – in cui riconoscersi. Una filosofia, un’attitudine, in comune.
Ho ovviamente accettato con entusiasmo e riconoscenza e la collaborazione con Errea è diventata realtà.

Errea è un brand che sento personalmente vicino sin da quando ho iniziato a fare sport a livello giovanile. È un brand che accompagna gli atleti sin dalla giovane età, partendo dalle categorie professionistiche per arrivare alla Serie A (se parliamo di calcio).
Un brand italiano che da una parte si dimostra da sempre vicino agli atleti, e dall’altra dimostra di saper innovare. Vestire i loro materiali mi permetterà infatti di entrare in contatto anche con la loro area di ricerca e sviluppo, sempre al lavoro per innovare e sperimentare nuove soluzioni tecnologiche in grado di soddisfare le esigenze di chi fa sport.

Racconterò la mia esperienza – di prodotto e non – qui e sui miei canali, sperando che questa collaborazione mi accompagni anche nella ripresa verso l’inseguimento dei miei traguardi ora che il virus sta allentando la presa (sperando continui così).

L’estate è ormai arrivata e mi godo l’ultimo periodo fresco per provare a mettere km in cascina. Per motivarmi sto sfruttando le virtual run. A tal proposito, anche per celebrare simbolicamente quella che fu la mia prima mezza maratona, correrò virtualmente la 10km della Brescia Art Marathon prendendo parte alla #BAMNERVERSTOPS, l’iniziativa “di corsa” che si svolgerà da sabato 4 luglio a domenica 12 luglio e che ognuno potrà correre dove vorrà: su un lungomare, costeggiando un fiume, attraversando i parchi cittadini.
Un modo come un altro per tornare a conquistare una medaglia.

Mi manca correre

Mi manca correre.
Ne sto parlando poco, ultimamente. Semplicemente perché non è importante ora e ho ritenuto fosse il caso di non allenarsi in strada, e di non farne un dramma.
Però, mi manca correre.
Mi manca il profumo dell’erba che a marzo, tu voglia o no, inizia a farsi sentire. Il sole tiepido che inizia a scaldare l’aria.
Non corro da settimane ormai, prima per la schiena, poi per lo scenario apocalittico che mi circonda.
Ma mi manca correre.
Mi manca quel senso di libertà, di solitudine, di fatica fine a se stessa. Quella fatica che serve solo a dimostrarti che ehi, ci sei, ce la puoi fare, tra i tuoi mille difetti vali qualcosa. Tra i tuoi mille limiti, quello puoi superarlo.
Aspettiamo tempi migliori, e per carità, non intendo per la corsa.
Ora ci sono cose più importanti da risolvere, per il bene di tutti.
Però…mi manca correre.

Passa, vero?

Cari amici runner (e non), questo per me è un periodo piuttosto complicato. Non tanto per l’attualità soffocante che credo sia per tutti motivo di apprensione o, se non altro, di distrazione dal normale corso degli eventi.

Purtroppo come ho già avuto modo di raccontare sono alle prese con un infortunio alla schiena (articolazione sacroiliaca per la precisione, a quando pare) che non cenna a mollare dopo ormai più di un mese di allenamento leggero e riposo.

Per la prima volta da quando ho iniziato a correre devo fare i conti con la fatica di non poter fare quello che mi piace fare. La corsa non è solo uno sfogo, fonte di benessere e soddisfazione. La corsa è anche strumento di weight management. Da qui una tensione crescente che mi accompagna negli ultimi giorni. La speranza che tutto si risolva, prima o poi, per tornare a godermi la bellezza della passione che ci accomuna.

Nel frattempo, con la primavera ormai alle porte, la seconda edizione del libro è ormai disponibile in libreria e online e i primi segnali sono stati positivi. Spero che la storia possa aiutare tante persone a ripartire, o semplicemente a stare meglio.

Chi volesse lo trova su Amazon (https://www.amazon.it/Corri-passa-ripartire-fallo-correndo/dp/8868491680/ref=mp_s_a_1_1?keywords=corri+che+ti+passa+libro&qid=1583052820&sprefix=corri+che&sr=8-1) o in tante librerie in tutta Italia.

Con la speranza di tornare presto a raccontare le emozioni che suscita correre, e non il disagio che suscita non poterlo fare.

Corri che ti passa è in tutte le librerie e negli store digitali dal 27 febbraio 2020

Corri che ti passa 2020

2020 croce e delizia. Croce perché è iniziato con un infortunio antipatico alla schiena che mi sta tenendo ai box per troppo tempo, cancellando con un colpo di spugna tutti i progetti e tutti gli obiettivi. Per preparare una gara come si deve dovrò tornare in piedi al cento per cento.

Delizia perché uscirà la prossima settimana, in libreria e sugli store digitali, la nuova edizione di Corri che ti passa.

Cosa ci sarà di nuovo? Cinque capitoli, che porteranno la conclusione della storia alla mezza maratona corsa a Brescia poco meno di un anno fa.

Spero che la storia possa arrivare a tante nuove persone e possa continuare il progetto avviato per condividere spunti di riflessione e offrire speranza a chi si trova in difficoltà. Che si voglia uscire da un momento buio o si voglia semplicemente tornare in forma, la mia storia ha dimostrato di poter aiutare con strumenti e informazioni semplici.

Il sito è già in preordine sui principali store online. Qui lo trovate su Amazon: https://www.amazon.it/dp/8868491680/ref=cm_sw_r_cp_api_i_olKuEbEAMKCF3

Sto pensando a se è come organizzare una presentazione del libro, che se sarà avverrà vicino a casa.

Nel frattempo chi vuole potrà venire a Robecca il 12 marzo per una serata dedicata a sport e alimentazione. Sarà un’occasione per parlare della mia storia, del libro, e della passione che ci accomuna.

Goodbye 2019, welcome 2020.

Se tre è il numero perfetto, il duemila diciannove è stato un anno perfetto per me. Le tre mezze maratone che ho corso con gambe e cuore mi hanno fatto sentire vivo come raramente mi ero sentito prima.

Più di mille i chilometri che ho corso, 105 le ore di attività tra allenamento e gare.

Un anno intenso che passo dopo passo è volato via. E ora eccoci per programmare un 2020 in cui spero di togliermi altre soddisfazioni.

Se è vero che i sogni son desideri, il mio desiderio è quello che l’attività fisica mi permetta di essere una persona migliore.

Questo 2020 sarà un anno importante anche per la mia opera letteraria, ‘Corri che ti passa’, che approderà in libreria con la riedizione pubblicata con casa editrice.

Finirà a breve l’avventura in autopubblicazione su Amazon, che mi ha regalato un’opportunità immensa e mi ha dato la possibilità di entrare nella classifica Kindle dei libri più venduti.

Ma l’ultima cosa che voglio fare è sedermi sugli allori. Con la speranza che la fine di un percorso possa rappresentare l’inizio di una nuova travolgente storia da raccontare.

Da Corbetta allo Yukon

Sto leggendo in questi giorni “La vita oltre”, libro in cui “Massiccione” Roberto Zanda racconta la sua storia. Una storia che è un pugno nello stomaco. E credetemi, non solo perché alla fine di questa storia lui ci ha rimesso due gambe e quasi due braccia. È un pugno nello stomaco, per me, perché conferma per l’ennesima volta che gli obiettivi che ci diamo nello sport sono quasi sempre associati alla nostra storia personale, così come tutto ciò che ci muove per raggiungerli.

Mi spiego meglio. Da un’analisi superficiale – come se ne sentono molte, del resto – correre un’ultramaratona in un deserto a 50 gradi o nella foresta bianca a -50 gradi può sembrare un’idiozia. Così come può sembrare una follia la volontà di scalare il Nanga Parbat aprendo una via mai aperta prima.

Ma se invece si approfondisce, andando a capire meglio la storia di chi decide di farlo, si ha modo di comprendere meglio cosa porti l’essere umano a sfidare i propri limiti oltre ogni logica apparente. “Massiccione” ha alle spalle una storia personale dura, intensa, drammatica. Che lo ha portato da adulto a voler dimostrare di poter sopravvivere, da solo, in qualsiasi situazione.

Sia chiaro, non voglio generalizzare, c’è sicuramente anche chi segue sfide impossibili per un tornaconto materiale: fama, soldi, successo. Quello che voglio dire è che è inutile giudicare le scelte di qualcuno ignorandone la storia personale nel dettaglio.

Le avventure che Zanda narra nel libro impressionano: per la complessità delle sfide che ha deciso di accettare, per la drammaticità degli eventi (personali e sportivi), per la forza d’animo dell’uomo prima e dello sportivo poi.

E da questa ‘impressione’ sono ripartito questa domenica quando, sveglio presto per uscire a correre, dopo aver constatato che il meteo non era dalla mia e che sarei dovuto andare a correre nel fango da solo ho tentennato sul da farsi.
Ma poi mi sono detto: che senso avrebbe arrendersi per così poco? Cosa mai potrei combinare, nella mia vita, desistendo per così poco ogni volta che devo fare qualcosa?

Siamo umani, ed evitare ciò che è evitabile è la nostra natura. Potremmo dire quasi che siamo progettati per farlo.
Il richiamo delle coperte, la comodità del divano. “Cazzo, piove!”, continuavo a ripetermi. Ma poi finisce sempre così, che nelle pozzanghere ti ci vuoi tuffare, per sentire l’acqua addosso e dimostrare a te stesso – o al mondo intero – di aver fatto abbastanza fatica.

La soddisfazione che ne deriva è la ricompensa più bella che potresti ricevere. Ma finchè non lo provi, non lo capirai.

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La “Strachemass a Curbeta“, ad ogni modo, è andata bene nonostante il freddo e la pioggia. Correre in un contesto di gara sulle strade dove ho macinato centinaia di km nell’ultimo anno mi ha emozionato, non nego di essermi emozionato in un paio di passaggi (soprattutto quello sotto casa mia).

Adesso testa ai prossimo obiettivi. C’è una nuova mezza da correre!